Italianistica 6 con S@bb@t1n0 (Monografico)

Topic Ufficiale

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  1. tiffany0825
     
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    allora????????????????

     
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  2. marymilly
     
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    nn l ha ancora distribuita...
     
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  3. caneri
     
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    a qUANTI DI VOI COME ME E GOLDENLADY ITALIANO 6 RISULTA SOTTO LA VOCE DI "UN MODULO MONOGRAFICO A SCELTA"?
     
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  4. marymilly
     
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    CITAZIONE (caneri @ 5/5/2008, 11:36)
    a qUANTI DI VOI COME ME E GOLDENLADY ITALIANO 6 RISULTA SOTTO LA VOCE DI "UN MODULO MONOGRAFICO A SCELTA"?

    a me risulta cm italianistica 6... ho anke "un modulo a scelta" e andando x esclusione penso sia l esame a scelta di latino, visto k latinistica 4 nn m compare...
     
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  5. marymilly
     
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    vabè ma ai fini dell'esame o della convalida dei crediti, è importante? nn credo...giusto?
     
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  6. didila
     
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    CITAZIONE (lussy1820000 @ 29/4/2008, 13:11)
    qualcuno mi può dire dove si trova la dispensa del libro gomorra,dal romanzo-inchiesta di saviano al teatro e al cinema???vi pregoooooooo :( :( :( :(

    la dispensa è disponibile sul sito www.lisa.unina.it!!!!!!
     
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  7. lussy1820000
     
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    scusami didilia la dispensa di cui parli è di gomora

    io nn sono riuscita atrovarla sul sito che hai citato


    grazie didila..ho trovato quello che mi serviva e anche le date d'esame per giugno e luglio
     
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  8. TERSICORINA
     
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    QST è LA DISPENSA (23 PAG.):MARCELLA MARMO
    Università degli Studi di Napoli Federico II
    Camorra come Gomorra. La città maledetta di Roberto Saviano
    1- Il romanzo no-fiction e la bolla mediatica
    Il ricco racconto della camorra odierna che ha fatto meritatamente di Gomorra un evento culturale del 2006 ha il suo primo fascino enigmatico nella metafora biblica apocalittica del titolo, seguita dall’allusione, nel sottotitolo, ad un viaggio verso un impero economico e un sogno di dominio. Nel libro i due poli del rapporto micidiale di potere-denaro, che è aspetto intrinseco ai fenomeni di tipo mafioso, si presentano in qualche modo sconfinati, configurando un vero assalto al cielo della criminalità camorrista già ritenuta “minore”, sulla base di una trattazione ampia e però impressionistica della materia1.
    La scrittura di qualità di questo giovanissimo autore è l’esito di un percorso importante ed originale all’interno della produzione sociologica e letteraria sulla camorra. 27 anni, famiglia borghese e laurea in filosofia, Saviano ha svolto sei anni di intenso lavoro sia di studio che di inchiesta negli ambienti malavitosi di Napoli e Caserta, ne ha scritto su riviste politiche e letterarie a stampa e on line2, per trovare un editore nazionale a ridosso della faida di Scampia (2004-05, oltre 200 morti).
    Il successo mediatico, in salita dalle 200.000 alle 800.000 copie tra il settembre 2006 e l’agosto 2007, può avere il suo riscontro nella particolare cura della copertina che Mondadori ha organizzato per questo esordiente nella collana Strade blu. A fronte dei coltelli color fucsia di Andy Warhol che alludono con eleganza alla mattanza delle guerre di camorra, sul retro la fotografia di Saviano ci parla attraverso gli occhi intensi e la fronte spaziosa, la sciarpa di lana con due giri intorno al collo: è l’icona non immediatamente decifrabile di una persona contorta, un giovane maschio meridionale, intellettuale bohèmien ma forse un marginale, certamente uno di sinistra3.
    Un editore del Nord cattura uno scrittore del Sud, si commenta in un blog, all’interno della valanga di interventi a ridosso del crescente successo di Gomorra, che accompagnano già nell’estate del 2006 le attribuzioni dei premi Viareggio e Morante , le recensioni sulla stampa nazionale e locale, le affollate presentazioni nelle librerie di diverse città italiane. Nel settembre, durante una manifestazione anticamorra nel casertano, il giovane intellettuale si spinge a denunciare i clan (con nomi ed invettive), dal palco dove tra gli altri ci sono il sindaco di Napoli e il presidente della Camera dei
    1 Sono condivisibili le riserve circa una presunta maggiore modernità della camorra odierna rispetto alla mafia, sulla base del pluralismo dei gruppi, dei morti ammazzati, del dinamismo degli affari e della giovane età dei capi, avanzate da S. Lupo, Che cos’è la mafia. Sciascia e Andreotti, l’antimafia e la politica, Donzelli 2007, p. 86.
    2 A singole storie, a partire dal 2003, erano dedicati vari pezzi giornalistici (in “Diario”, “Corriere del Mezzogiorno”, “Lo straniero”, “Pulp”, “il manifesto”) nonché racconti di camorra, e altro, sul blog www.nazioneindiana.com e sulla rivista letteraria “Nuovi argomenti” (editore Mondadori, che scopre probabilmente il giovane scrittore attraverso il bel racconto La terra padre del giugno 2005 che rileggiamo nel capitolo Kalashnikov. Se ne parla nella trasmissione “Il libro dell’anno di Farhenheit”, Radio3, dal 18 gennaio al 2 febbraio 2007, dove il voto del pubblico premia Saviano tra gli scrittori esordienti).
    3 L’effetto mediatico dell’icona del giovane scrittore, che dalla copertina del libro passerà alla stampa quotidiana, viene sottolineato da L. Pace, Il mondo alieno raccontato da Roberto Saviano,“Il Foglio”, 13 ottobre 2006.
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    Deputati. Le immediate minacce dei clan e la decisione del Ministro degli Interni di assegnargli una scorta fanno quindi di Saviano un personaggio pubblico e spingono ancora avanti il libro come evento culturale di massa. Entrato ufficialmente nell’antimafia a ridosso di quest’evento e quindi sulle prime pagine dei quotidiani, Saviano per alcune settimane spara una serie di servizi su “L’espresso” che s’inseriscono con efficacia in particolare nella crisi dei rifiuti in Campania, come potremo commentare più avanti. Lungo l’anno torna di tanto in tanto al centro dell’attenzione mediatica per i suoi meriti letterari, partecipa a convegni beninteso lontano da Napoli, legge e racconta per radio la sua scrittura di Gomorra, annuncia per il prossimo anno pièces teatrali e la sceneggiatura di un film. “L’espresso” di ferragosto 2007 lo dice nel mirino dei Casalesi insieme al PM Cantone4.
    4 G. Di Feo dedica una lunga intervista al coordinatore della Dda di Napoli Roberti a proposito di alcuni segnali di pericolo da parte dei Casalesi sia per il Pm Cantone, impegnato in indagini contro la cupola, sia per lo scrittore, il cui successo avrebbe “costretto questi padrini diventati padroni dell’economia a vivere sotto i riflettori”, addirittura “fatto terra bruciata intorno alle attività dei clan in Italia e all’estero” (Casalesi operazione Gomorra, “L’espresso”, 16 agosto 2007, p. 46).
    5 Cfr. F. Barbagallo, Napoli fine Novecento. Politici, camorristi, imprenditori, Einaudi, Torino 1997; Id., Il potere della camorra (1973-1998), Einaudi, Torino 1999. Risulta carente invece la percezione storica del fenomeno, per cui cfr. M. Marmo, Tra le carceri e i mercati. Spazi e modelli storici del fenomeno camorrista, in Storia d’Italia. Le Regioni dall’ Unità ad oggi. La Campania, a cura di P. Macry e P. Villani, Einaudi, Torino 1990; I. Sales, Le strade della violenza, Napoli, l’ancora del mediterraneo, 2005.
    6 Cfr. l’intervista ospitata dal blog di Loredana Lipparini, 29 agosto 2006.
    7 Azzerando le distanze e mescolando gli stili, “Gomorra (...) è anche un libro odiatissimo, in silenzio magari (...) genera un fastidio enorme, come un’invasione per gli scrittori, come un tradimento per i saggisti, come un insulto per i cronisti”, ivi.
    8 Ibid. Vedi anche le recensioni di Wu Ming 1 in www.wumingfoundation.com, 21 giugno 2006, e di Francesco Forlani, utto è coro e materia, in www.carmillaonline.com, 12 settembre 2006.
    T9 Saviano chiarisce la sua poetica nella trasmissione radiofonica dell’8 dicembre 2006, che conclude il ciclo di dieci puntate Napoli dentro il vulcano”, Radio3, Il Terzo Anello. Nel libro la si legge in particolare nella lunga invettiva ““Io so e ho le prove”, p. 232 ss., già presente in un racconto edito da “Nuovi Argomenti” all’interno di una rubrica
    Di là dalle riflessioni che si possono aprire circa l’efficacia di una via letteraria per l’antimafia, la bolla mediatica che ha fatto dello scrittore esordiente un personaggio pubblico sembra aver opportunamente utilizzato le qualità letterarie elevate del libro. La fusione di un’esperienza vissuta ai margini della recente guerra di camorra con l’ampia documentazione delle fonti giudiziarie degli ultimi decenni5 ha prodotto infatti un racconto di eccezionale ricchezza, che contamina i generi e perciò stesso può trovare molti lettori. Il libro è un romanzo no-fiction, chiarisce Saviano6, a proposito delle diverse classificazioni proposte da recensioni e interviste e dagli interventi nei blog in rete (coraggiosa letteratura di inchiesta, o piuttosto romanzo realistico-visionario?). Schivando la scrittura argomentativa del saggio come la precisione asciutta del reportage7, Saviano si affida piuttosto all’io narrante, che interviene a spezzare la ricostruzione discorsiva delle tante vicende di clan e di boss – il Sistema secondo la recente accezione dell’organizzazione politico-economica di un potere territoriale ormai lanciato nell’economia liberista mondiale. L’io narrante non è peraltro sempre l’autore, ma si sposta verso molti altri attori del milieu e dello stesso Sistema, portando lo zoom verso i soggetti, le storie e le percezioni della tragica violenza diffusa. Un io narrante mobile e corale fa dunque del racconto-verità un romanzo8. Dalla capacità di catturare molte voci derivano al libro il suo carattere coinvolgente e insieme le complessità del discorso di Gomorra. La poetica di Saviano vuole integrare la scrittura nella vita9, con
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    riservata ai giovani scrittori, “IO SO”, la quale riprendeva un famoso articolo di Pasolini del 1974 dedicato alla denuncia del Palazzo (“Nuovi Argomenti” ottobre-dicembre 2005; www.nazioneindiana.com., 2 dicembre 2005). Effetto retorico faticoso, all’incrocio tra la denuncia del capitalismo del cemento e la visita catartica alla tomba di Pasolini.
    10 “Gomorra ha preso forma in cinque anni di lavoro e uno di scrittura. La mia casa editrice poi ha seguito il percorso di scrittura (…) Avevo consegnato una mole di carte. Avevo scritto un mammut, versando tutto quanto poteva essere versato. Senza un preciso progetto di costruzione. Ho seguito le mie storie, ho seguito gli atti processuali della magistratura”, optando quindi per la “scelta di raccontare” a zig-zag tra le une e gli altri: dall’intervista di Loredana Lipparini cit.
    11 Cfr. la citata invettiva “Io so e ho le prove”, Gomorra, p. 232 ss.
    12 Lontano dalla devozione religiosa, Saviano sente nella parola nuova e potente del prete la “fiducia nella possibilità di azzannare la realtà”, in quanto “capace di inseguire il percorso del denaro seguendone il tanfo” (ivi, p. 250). L’odore dell’economia ricorre spesso, secondo scelte stilistiche che ridondano di metafore corporee per raccontare un mondo delle merci intriso di sensitività sgradevoli.
    13 Ivi, pp. 263-4.
    14 “Dobbiamo rischiare di divenire di sale, dobbiamo girarci a guardare (…) Fate decenni di carcere per raggiungere un potere di morte, guadagnate montagne di danaro che investirete in case che non abiterete, in banche dove non entrerete mai (…) una vita che consumate nascosti sotto terra (…)”, ivi, p. 264.
    15 Di là dalla mera assonanza camorra-Gomorra, il titolo alluderebbe al classico sfruttamento centro-periferia: “La mia non è una città di peccatori (…) c’è bisogno di una Gomorra perché altrove ci sia un paradiso. Il paradiso è Tenerife, Aberdeen, Filadelfia, dove arrivano e vengono goduti i soldi creati a Gomorra, cioè a Secondigliano, a Casal di Principe, a San Cipriano” (intervista a “Il Giornale” del 16 maggio 2006).
    l’ambizione che la parola letteraria possa sfidare realmente le forze del male e dare una voce effettivamente nuova all’antimafia. Una poetica difficile, in un mondo che l’io narrante racconta come pervaso da un onnipresente senso di morte.
    2- La città maledetta
    Suppongo che la metafora forte di Gomorra sia venuta lungo il grosso lavoro che la casa editrice ha svolto con lo scrittore esordiente10, giacché non risultano citazioni della città maledetta nella sua precedente già qualificata produzione. Nel libro arriva essa in sordina verso la fine, da uno scritto di Don Diana, il prete anticamorra la cui morte per mano dei clan nel 1994 ha segnato profondamente la personalità di Saviano nel suo percorso verso la parola-verità. Se l’autore riserva un posto primario anche a Pier Paolo Pasolini come maestro11, la storia del parroco del suo paese lo porta più direttamente al problema cruciale, la possibilità e l’efficacia di una parola che si ponga contro i meccanismi stritolanti del potere criminale. Nel raccontare la storia edificante di questa persona che “andava a rifondare la parola religiosa e politica” anche per i non religiosi, testimone che puoi eliminare solo ammazzandolo12, lo zoom va su un discorso che Diana stava scrivendo con un amico contro gli uomini dei clan, coloro che trasformano le nostre terre in “un’unica grande Gomorra da distruggere”13. L’antica città empia, distrutta dal Signore secondo il racconto della Genesi, nell’arringa apocalittica del parroco è piuttosto la comunità che si auto-distrugge, lasciandosi contaminare dal potere di morte dei clan; vite nelle quali la stessa accumulazione di ricchezze si muove in un deserto che nega il godimento delle ricchezze medesime. E se nella storia biblica è vietato a Lot e a sua moglie di volgersi indietro e guardare la distruzione di Gomorra, l’invettiva contro i clan chiama invece a rischiare, a vedere14.
    Benché Saviano non sottolinei la precisa corrispondenza tra l’allucinato ammonimento del prete-eroe e la propria scelta di guardare dal di dentro il male del suo tempo15, la griglia di lettura forse più forte che attraversa questo racconto sociale è
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    16 La prima fase è riportata da Saviano (Gomorra, p. 48), la seconda l’ho ascoltata da una ragazza intervistata dal TG regionale del 22 settembre 2006 a commento di una discussa trasmissione televisiva dedicata a “i mali di Napoli”. Colpisce anche il sottofondo carnevalesco dell’espressione (come carnevalesco è il fenomeno camorrista sin dalla sua strutturazione ottocentesca), che conferma la vocazione di anti-Stato, intrinseca in un potere territoriale pure sovente inteso piuttosto come Stato nello Stato per le propensioni alla mediazione che prevarrebbero sull’invasione delle istituzioni, cfr. Gomorra, pp. 209-210.
    17 La trattazione dell’economia camorrista viene valorizzata nella recensione di F. Barbagallo, “Il Corriere del Mezzogiorno”, 24 maggio 2006.
    18 La citata intervista a Loredana Lipparini chiarisce che al libro ci sono diversi accessi e che esso vuol essere “un libro sul potere dell’economia. Sul mio tempo, sulla morte, sulla condizione umana, sui soldi, sulle merci, sulla guerra nel cuore d’Europa”. Lo scritto è una buona guida anche a decifrare il montaggio del libro, di là dalle perplessità che suscita l’uso impressionistico della documentazione, nel percorso innanzitutto esistenziale dell’autore. Il metodo di lavoro è stato “credo rappresentato dalla volontà – alimentata da una rabbia totale. Alcune pagine le ho scritte durante i giorni della faida di Secondigliano, tre morti al giorno, una città militarizzata dalle truppe camorriste e dalla polizia. Tornavo a casa dopo essermi inghiottito le immagini peggiori e scrivevo di notte. Altre parti, quelle più analitiche, invece riuscivo a diluirle in mattine e pomeriggi di studio disperatissimo, su migliaia di carte di magistrati e nastri delle interviste che avevo fatto. E poi i capitoli nati dal ricordo di adolescente in terra di camorra da cui ho saccheggiato moltissimo. Scrivere questo libro mi ha ulcerato lo stomaco e reso fidanzato dell’enterogermina”.
    19 Straordinario l’incontro con il giovanissimo Pikachu, che racconta il diverso dolore della morte secondo i diversi organi colpiti e modi di usare le armi: un io corale connette i tanti particolari ascoltati in occasione delle morti, Gomorra, p. 114 ss.
    appunto la vocazione autodistruttiva non solo della comunità tollerante, ma degli stessi uomini che scelgono il Sistema. Questa recente dizione delle organizzazioni camorriste (una volta dette piuttosto società) allude ad un primato dell’economia, che certo funziona tanto nell’accumulazione al top, quanto nella redistribuzione verso il milieu sociale, a partire dal reclutamento. “Appartengo al Sistema di Secondigliano”, “il Sistema significa che puoi risolvere qualcosa” 16, sono espressioni correnti significative, che sfruttano il sottofondo economico funzionalista della parola, benché ci richiamino anche la sua ampia accezione politica anti-omologazione già tipica del ’68.
    Nel racconto di Saviano, le quantità e le qualità dell’economia camorrista si affollano con efficacia, grazie innanzitutto alla consultazione intensiva delle indagini giudiziarie17, di cui si fa un uso documentario identificabile ma che rifugge dalla scrittura scientifica, e pour cause. Lo scrittore rende esplicito di aver inteso la propria parola-verità come accesso al tessuto connettivo di quel circuito potere-denaro, che non vuole raccontare con le metodologie del saggista ma attraverso la full immersion nel proprio tempo, cioè inseguendo il potere dell’economia: “raccontare il danaro ficcando il naso lungo la sua scia (…). Perché dalle mie parti il denaro ha odore prima che lo perda nel percorso d’investimento”; raccontare “da come si muore sotto le botte (colpi di pistola) al caffè distribuito dalle ditte dei clan al cemento che costruisce le case a Modena e Milano”18.
    Prima che all’economia, questa immersione nel corto circuito potere-denaro dà efficacia al racconto della violenza nella comunità, che dall’io corale assume una sua evidenza antropologica. Saviano è capace di raccontare le proprie emozioni sconvolgenti di fronte ai morti che giacciono ancora per terra quando raggiunge con la Vespa i luoghi dell’agguato nei viaggi funerei della sua inchiesta, ed insieme i sentimenti di molti altri – dalla violenza sui corpi nel mercato della droga, alla paura che si diffonde a macchia d’olio nel milieu, al peso della morte nell’immaginario che ne hanno gli stessi uomini del Sistema19. Indimenticabile il racconto del traumatico allenamento dei ragazzini al loro primo reclutamento, che vengono addestrati innanzitutto al giubbotto antiproiettile. Essi sono divorati dalla sete, perché assumono le “pasticche” al fine di reggere lo sforzo
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    20 Ivi, p. 122. Il racconto è stato raccolto direttamente dall’autore nella sua spericolata inchiesta.
    21 Ivi, p. 129.
    22 La villa di Walter Schiavone (fratello di Sandokan, per molti anni responsabile del ciclo del cemento per conto del clan) come Hollywood, ivi, p. 267 ss.
    23 Ivi, pp. 221-2.
    psico-fisico dell’addestramento; una sete che la sera li porta a succhiare l’olio della pizza, ad aggiungerne ancora20.
    Questa parte della storia camorrista va dunque ben oltre il noir e produce un racconto sociologico di qualità. “Io voglio diventare un boss”, avere supermercati, negozi, fabbriche, donne – leggiamo nella lettera di un quindicenne trasmessa dal giudiziario –-“che quando entro in un negozio tutti mi devono rispettare. E poi voglio morire. Ma come muore uno vero, uno che comanda veramente. Voglio morire ammazzato”21. In questa voce giovanile il corto circuito tra potere e denaro che brucia in partenza le biografie trova l’espressione più chiara. Altrettanto interessante è che in questa cultura non soltanto i modelli vengano dal cinema, secondo l’inversione cruciale tra reale e virtuale che il post-moderno produce, ma che i modelli passati dalla fiction siano quelli di Scarface, l’eroe di un film americano alla fine sconfitto; la cui villa lussuosa viene fatta ricostruire identica da un boss del casertano, che la farà smantellare dai suoi uomini quando scatta ahimé il sequestro statale22.
    3- Aporie
    A quanto pare la cifra ossessiva della mattanza contemporanea del napoletano e del casertano favorisce, nella percezione di Saviano, l’idea che sia il ciclo liberista dell’economia globalizzata a scatenare i conflitti. Sappiamo viceversa come la precarietà delle vite sia un aspetto intrinseco a questa imprenditorialità sui generis centrata innanzitutto sul capitale umano, che tra i suoi aspetti strutturali ha la guerra sin dalla comparsa dei fenomeni mafiosi nel secolo XIX. Ad una banale riflessione di lungo periodo, il nodo cruciale della particolare violenza delle guerre di mafia nel quadro contemporaneo rinvia al passaggio da un sistema che opera in un contesto di risorse date, con possibilità prevedibili di accumulazione attraverso l’estorsione e i mercati legali e illegali locali, al contesto di fine Novecento in cui i mercati illegali di lunga distanza, l’espansione della spesa pubblica e la stessa deregulation del ciclo liberista allargano di molto l’accumulazione per vie criminali, e i relativi conflitti. La deliberata disattenzione alla storia serve evidentemente a Saviano a lasciar passare un azzardato discorso sul fallimento del sogno di dominio della camorra (che il disordine della guerra sembrerebbe attestare) nella sua relazione stringente con l’impero economico, invece vincente nel ciclo liberista del capitalismo post-fordista contemporaneo. Questo contesto avrebbe prodotto una vera e propria rifondazione del fenomeno camorrista rispetto al passato, secondo una tesi tranchante: la camorra da organizzazione politica forte su territori delimitati si è trasformata in potere economico rampante nel sistema liberista mondiale e perciò è attraversata da conflitti distruttivi come rete criminale gerarchizzata23. Quanto meno assiomatica è l’argomentazione secondo la quale la guerra di camorra contemporanea risponde bene alla logica economica pura: il boss deve soccombere a breve, perché la sua permanenza al potere ostacolerebbe l’ulteriore sviluppo dei commerci, farebbe lievitare i prezzi e bloccare la ricerca di nuovi affari; la logica del
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    24 Ivi, p. 222.
    25 Superficiali restano i riferimenti ai fondamenti oligopolistici dell’economia camorrista e all’estorsione/protezione, ivi, pp. 61, 215-6. Cfr. la complessa tematica già al centro degli studi di D. Gambetta, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Einaudi, Torino 1992, e le notazioni di M. Marmo, Le ragioni della mafia, “Quaderni storici”, 88/1995. Descrittivo è il capitolo sulle donne, perfettamente inserite nelle strategie imprenditoriali come nelle convenienze redistributive.
    26 Gomorra, p. 134: la carne da macello resta impantanata nella periferia (“3600 morti da quando sono nato”, p. 135), mentre il capitalismo mondiale fa affari con l’élite criminale locale e probabilmente la integra al centro del potere economico. Altrove però Saviano osserva che l’economia camorrista non ha prodotto sottosviluppo nel casertano, giacché investimenti edilizi, supermercati, multisale nascono come funghi, inizioluoghi più che i nonluoghi di Marc Augé (ivi, p. 229). Incerto il passaggio sulla metafora di Gomorra come periferia, già cit. nella nota 14.
    27 Ad es, p. 127, Cosimo Di Lauro rappresenterebbe “la nuova borghesia svincolata da ogni freno (…) volere tutto e subito (…) mettere in conto di essere arrestati, di finir male, di morire (…) Ernst Junger direbbe che la grandezza è esposta alla tempesta. Chi dice che è amorale, (…) che l’economia possiede dei limiti e delle regole da seguire, è soltanto colui che non è riuscito a comandare, che è stato sconfitto dal mercato”: dove la categoria “borghesia” sembra riferirsi alla determinazione a stare sul mercato contro ogni regola, salvo a scivolare appunto sulle cause del fallimento di questi “samurai liberisti”, i quali evidentemente si misurano ininterrottamente non con il mercato, tanto meno liberista, quanto con le chances del potere militare e relativa guerra di camorra. Analoghe aporie si leggono, a p. 215, a proposito della “nuova borghesia camorrista casalese”, che avrebbe “trasformato il rapporto estorsivo in una sorta di servizio aggiuntivo”, con gli accordi con Cirio e Parmalat: i quali hanno chiaro profilo oligopolistico e dunque si situano lontano dall’apologia liberista. Il ricorrere di analoghe dizioni per la mafia viene commentato, in riferimento alla pronunciata prossimità sociale tra mafia ed elementi borghesi sin dall’800, da Lupo, Che cos’è la mafia cit., p. 90 ss.
    28 Ancora dall’intervista a Loredana Lipparini: “Ho scritto un’epica dei boss forse, ma un’epica non è una celebrazione. Iboss mi hanno affascinato, nonostante l’odio vero, privatissimo, feroce nei loro confronti. Da ragazzino divenire boss, crescere, combattere, gestire tutto e crepare mi sembrava il destino migliore che potessi scegliermi (…) Personaggi che hanno una caratura tragica ben maggiore di tanti altri uomini di potere. Lo scrittore non è un cronista e può ben stare con chi vorrebbe dilaniare”.
    29 Gomorra, pp. 127, 215-7.
    30 Augusto La Torre, boss abile quanto efferato di Mondragone, vorace lettore di Jung, Freud e Lacan, nel suo eloquio durante i processi intreccia citazioni di Lacan con riflessioni sulla scuola della Gestalt: “una conoscenza che il boss ha utilizzato durante il suo percorso di potere, come una inaspettata arma manageriale e militare” (ivi, p. 281): ?
    Sistema è che emergano nuovi aspiranti boss pronti al prenderne il posto24. La guerra di camorra, fase suprema del liberismo?!
    L’enfasi nuovista indebolisce anche la comprensione di altri nodi già canonici dell’agire camorrista, quali i classici intrecci nelle strategie di racket tra accaparramento di risorse e convenienze oligopolistiche, degli uomini del Sistema come dei loro clienti dell’estorsione/protezione; aspetti che Saviano ovviamente incontra ma si limita ad affiancare alla mitologia liberista25. Questa griglia analitica sembra deformante anche quando la spiegazione della guerra ricorre – non senza incertezze – al modello centro-periferia26, o quando per l’area al top del Sistema si parla con disinvoltura di borghesia camorrista – la categoria ormai annacquata dal mutamento sociale viene ripresa senza poterne esplicitare altre qualità, che la voglia di vincere27. Lo stesso Saviano confessa di sentire il fascino di questi imprenditori rampanti, pronti a bruciare nel tempo lo stesso sogno di dominio28, che si sarebbero lasciati alle spalle la diversità plebea, se talvolta amano combinare la violenza più dura nella gestione del clan con la passione per i libri29 e addirittura per la psicoanalisi30.
    4- le merci e le vite
    Queste aporie erano probabilmente inevitabili in un montaggio della tematica, e in una scrittura, dove alla percezione letteraria di per sé totalizzante della guerra di camorra si è affiancata una congerie di elementi conoscitivi che esibiscono il fascino ambivalente del liberismo: la sociologia della mafia imprenditrice da sempre avara nella comparazione
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    31 Vedi i capp. Cemento armato sull’edilizia e Angiolina Jolie sul tessile: settori peraltro tipicamente labour intensive in cui lo sfruttamento non attiene specificamente alla penetrazione camorrista, che sviluppa la consueta strategia di accaparramento di risorse presenti sul territorio. Quanto meno azzardata risulta la valutazione dell’invasione camorrista della filiera del tessile, che Saviano dà al 100% senza indicare fonti documentarie, Gomorra, p. 48 ss.
    32 Ivi, pp. 14-15.
    33 Corpi umani o simbolici. Vedi nell’esordio la rappresentazione del porto di Napoli, dove le metafore del taglio e delle viscere si fondono: larga ferita tra il mare e la terra, l’Occidente e un Estremo Oriente in realtà vicinissimo, “punto finale di viaggi interminabili delle merci (…) il buco nel mappamondo da dove esce quello che si produce in Cina”, ivi, p. 12.
    34 Ivi, pp. 232, 235.
    35 Vedi il cap. Kalashnikov, che riprende dal racconto La terra padre (cfr. nota 2) la storia della iniziazione alle armi da parte del padre quando aveva dodici anni, inserita nel libro con alcune censure circa la percezione negativa della sessualità del padre e la loro separazione.
    36 Gomorra, p. 135; G. Fabre, A sangue freddo con la camorra, “Panorama”, 27 luglio 2006.
    storico-sociale, e la mole delle fonti giudiziarie ispirate a questa stessa deformante proiezione su un presente nuovista; il radicalismo no global fuso con i valori di una certa trasmissione del marxismo, tra la rivolta etica contro lo sfruttamento31 e la denuncia della mercificazione sempre più invadente nel nostro mondo.
    Se al liberismo Saviano riferisce lo stesso sogno di domino della guerra di camorra, l’altro snodo che fa da calamita all’intero racconto è la cifra ossessiva circa l’invasione delle merci, che viene pur sempre dall’impero economico del male, costituendo il pendant sociale di massa del polo denaro. Questa dilatazione delle quantità merita a sua volta un’attenzione specifica, poiché – di là dal pensiero eco-marxista che può ispirarla – produce rappresentazioni seducenti a livello letterario, e può dunque rinviare all’ispirazione profonda del discorso di Saviano. Il lettore resta certo catturato dall’esordio visionario sul porto di Napoli invaso dai cinesi, dove dal container dondolante cadono i cadaveri congelati da riportare in Cina per la sepoltura, e nel quale d’altra parte si concentrano enormi quantità di merci da smistare in Europa. L’iperbole è consentita: “in poche ore transitano per il porto i vestiti che indosseranno i ragazzini parigini per un mese, i bastoncini di pesce che mangeranno a Brescia per un anno, gli orologi che copriranno i polsi dei catalani, la seta di tutti i vestiti inglesi di una stagione”32.
    L’ ossessione bulimica torna a connettere la storia dei corpi e quella delle merci ed apre dunque una chiave di lettura psicoanalitica di Gomorra, a quanto risulta sinora poco presente nelle recensioni. In ogni parte del libro l’angoscia regressiva che prende allo stomaco, il disgusto, rimbalza dalle numerosissime metafore corporee che alludono ad un dentro/fuori propriamente viscerale. Queste ultime sono assai più frequenti degli stessi richiami al sangue e alle ferite dei corpi33. L’ansia viene dalla rabbia, e somiglia allora ad una crisi d’asma34, quando il giovane sale le scale ed entra nelle case, è l’orrore del capitalismo del cemento – il dominio economico di Gomorra proprio nei paesi della sua infanzia. L’autore si racconta con trasparenza per lo snodo autobiografico cruciale del rapporto con la figura del padre, che lo inizia alle armi ma poi abbandona la famiglia35, e con qualche riferimento più discreto ad una madre in ansia per le avventure pericolose del figlio, la quale gli ha trasmesso peraltro l’amore per la cultura36.
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    37 Ivi, pp. 209-210.
    38 Gomorra cit., p. 310 ss.
    39 Cfr. il dossier “Napoli perduta, le reazioni” in http://espresso.repubblica.it/dettaglio, 11 settembre 2006, e quattro servizi di Roberto Saviano su “L’espresso” tra settembre e novembre 2006. Senza molto aggiungere in realtà a quanto leggiamo in Gomorra, la cifra giornalistica antipolitica risulta parallela a quella di Giorgio Bocca, ricorrendo espressioni eccessive come “inferno napoletano”, “l’urlo di denuncia dello scrittore Saviano”, “la puzza di rifiuti che invade il Sud è di tutto il Paese e di tutta la classe politica che lo governa”. La parola-verità di Diana viene ancora ripresa in una prospettiva antimafia, tuttavia pessimista: “Tutto è da rifare (…) sembra esserci ancora il sapore amaro delle parole di Antonino Caponnetto alla morte di Falcone e Borsellino: tutto è finito” (E voi dove eravate, 23 novembre 2006).
    40 N. Moe, The View from Vesuvius. Italian Culture and the Southern Question, 2002, University of California Press, Berkeley, Los Angeles, London (ed. it. Il paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del Mezzogiorno, l’ancora del
    5- Antipolitica e antimafia
    Il primato dei sentimenti tipico del post-moderno trova dunque declinazioni insieme corali e personali in questo libro che ha prodotto una percezione letteraria d’eccezione circa la storia camorrista recente e ha effettivamente catturato lettori e lettrici di varia età e attrezzatura culturale. Probabilmente nello straordinario successo di Gomorra sono confluiti insieme la capacità del giovane scrittore di sintonizzarsi con la comunicazione fluida, letteraria prima che analitica, che è propensione diffusa nel nostro mondo difficile, e lo stesso radicalismo approssimativo delle idee economiche, nutrito di un’enfasi nuovista fuorviante, quanto accattivante per un pubblico alla ricerca di un (nuovo?) senso comune.
    Vengo dunque a qualche osservazione conclusiva circa le retoriche che, com’era forse inevitabile, hanno accompagnato la figura pubblica del giovane intellettuale meridionale engagé nell’antimafia. Per un verso è chiaro come l’evento culturale sia decollato in coincidenza con una crisi della politica locale, all’interno della politica italiana a sua volta in bilico: secondo un fenomeno del resto ricorrente nella lunga storia della cosiddetta ex-capitale, la “questione di Napoli” può captare umori sotterranei del Paese in particolare lungo le crisi del sistema politico, di cui diviene come lo specchio, un metadiscorso che indica ora le possibilità in salita, ora il segnale pericoloso del fallimento. La crisi amministrativa e d’immagine del 2006 ha evidentemente chiuso il ciclo aperto con molte speranze politiche ed identitarie dal cosiddetto “rinascimento”, lanciato dal sindaco di sinistra Bassolino vincente nei primi anni ’90.
    Si può dire che il libro arrabbiato di Saviano parla poco di politica, giudicando tra l’altro che al primato dell’economia abbia corrisposto una reale capacità dei clan di autonomizzarsi rispetto ai politici, più marcata che nella mafia37; lo stesso eccezionale capitolo, l’ultimo, sui rifiuti tossici che vengono infilati in ogni buco del sottosuolo campano non dà particolari rilievi alle responsabilità politiche ed amministrative del caso38. I toni di antipolitica à la Giorgio Bocca arrivano invece, eclatanti, nelle corrispondenze su “L’espresso” 39, a proposito di rifiuti e altre colpe della classe politica campana, nei mesi del crescente successo di Gomorra che coincidono con la crisi di ordine pubblico a 360 gradi dell’estate dell’indulto.
    Finalità pubblicitarie a parte, il metadiscorso che l’evento culturale Gomorra riveste balza in evidenza nella sette trasmissioni per Radio3 in cui Saviano racconta il suo libro, dallo stesso titolo “Napoli sotto il vulcano”: sigla quanto mai evocativa, che infila certo non per caso la lunga sequenza delle immagini del Sud trasmesse dalla letteratura di viaggio, sovente centrate appunto intorno al fuoco pericoloso dei grandi vulcani40. In
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    mediterraneo, Napoli 2004).
    41 Della quale si è discusso intensamente in occasione degli affollati funerali di Mario Merola del 14 novembre 2006, restando relativamente isolato l’elogio che il sindaco Rosa Russo Jervolino ha voluto fare della mitologica prepotenza buona della camorra storica.
    42 F. Viscone, La globalizzazione delle cattive idee. Mafia, musica, mass media, Rubbettino, Catanzaro 2005.
    43 “la Repubblica”, “Corriere del Mezzogiorno” 14 dicembre 2006.
    44 R. Saviano, Ragazzi di coca e di camorra, “L’espresso” 21 giugno 2007.
    45 Cfr. G. Ragone, Contro la criminalità solo inutili riti. Se l’anticamorra diventa esorcismo, “Il Corriere del Mezzogiorno” 16 gennaio 2007.
    questa serie radiofonica lo scrittore di grido ha parlato con buona affabulazione di camorra e di poetica come da Gomorra, aprendo inoltre una finestra significativa sulle canzoni rap ispirate alla guerra di Scampia. Musica popolare, nuova cultura di giovani marginali, che squaderna dall’interno l’esperienza del sangue, i confini incerti con la camorra, la dura vita in periferia: nulla a che vedere con la vecchia plebe e la sua mitologica guapparia41. Anche altrove (tra la Calabria e la Germania ) nuove vie mediatiche passano tra la ‘ndrangheta e la musica; la cultura antimafia è orientata a non de-criminalizzare questa produzione borderline tollerandone la vena popolare42. Mentre il Ministro degli interni ha criticato a sua volta rappers e neomelodici napoletani poiché i testi veicolano la cultura camorrista43, il vero entusiasmo di Saviano per questa musica ci dice come lo scrittore riconfermi la sua esperienza di empatia esistenziale-letteraria con Scampia attraversata dalla guerra. La passione per i rappers che parlano confusamente di identità marginali segnate dalla contiguità con la camorra ha il suo pendant in nuovi bei racconti di Saviano dove il senso di colpa collettivo schiaccia quanti nascono nella città maledetta, invasa dalla paura che produce silenzio, con i morti per strada44.
    Gli effetti di antimafia di questa letteratura? Sui giornali cittadini già nel 2006 diversi intellettuali umanisti e scienziati sociali si sono espressi in termini critici verso la spettacolarizzazione dell’anticamorra, passata attraverso il “caso Saviano” come un rito di esorcismo45. D’altra parte, il romanzo-no fiction svolge il suo discorso in un gioco di ambivalenze che complicano le stesse funzioni di denuncia civile che lo scrittore certamente si propone e a cui senza dubbio adempie. Se l’invettiva radicale io so e ho le prove conserva il segno della denuncia di sinistra contro il potere che già gli dava l’intellettuale engagé Pasolini trent’anni fa, l’io narrante di Saviano si fa coinvolgere non soltanto dalla storia di corpi e anime colpiti dalla violenza, ma talora anche – a destra? – dal fascino del modello di dominio dei boss e/o delle razionalità economiche del Sistema. Il rischio da evitare, oggi come domani, è che retoriche buoniste prevalgano su una lettura più libera di questo giovane scrittore, la cui parola-verità trasmette soprattutto un racconto di orrori.
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    46 Mi limito a citare gli scritti “storici” cui farò riferimento: M. Monnier, La camorra. Notizie storiche raccolte e documentate, (Firenze 1862) Napoli 1965; T.C. Dalbono, Il camorrista e la camorra, in F. De Bourcard (a cura di) Usi e costumi di Napoli e contorni, (Napoli 1853-1866) Milano 1955; P. Villari, Le lettere meridionali e altri scritti sulla questione sociale in Italia, a cura di F. Barbagallo, Napoli 1970 (1861-1875); F. Russo ed E. Serao, La camorra. Origini, usi, costumi e riti dell’annurrata soggietà, (Napoli 1907) Napoli 1970; A. Labriola, Il segreto di Napoli e La leggenda della camorra, Napoli 1911; P. Ricci, Le origini della camorra. 150 anni di malavita napoletana raccontati da Paolo Ricci, con prefazione di M. Valenzi e presentazione di A. Lamberti, Napoli 1989 (“Vie Nuove”, 16-23/1959); C. Guarino, La camorra, in AAVV, Napoli dopo un secolo, Napoli 1961.
    47 P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, Bologna 1983; AAVV, La camorra imprenditrice, Napoli 1987; I. Sales, La camorra le camorre, Roma 1988; A. Lamberti, La camorra. Evoluzione e struttura della criminalità organizzata in Campania, Salerno 1992; G. Di Fiore, Potere camorrista. Quattro secoli di malanapoli, Napoli, 1993: F. Barbagallo, Il potere della camorra (1973-1998), Torino 1999.
    48 M. Marmo, L’onore dei violenti, l’onore delle vittime. Un’estorsione camorrista del 1862 a Napoli, in Onore e storia nelle società mediterranee, a cura di G. Fiume, Palermo 1989; Ead., Tra le carceri e i mercati. Spazi e modelli storici del fenomeno camorrista, in Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità ad oggi. La Campania, a cura di P. Macry e P. Villani, Torino 1990.
    49 Per questi indirizzi storiografici vedi la letteratura essenziale: Mafia, “Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali”, 7-8/ 1990; S. Lupo, Storia della mafia dalle origini ai nostri giorni, Roma 1996; P. Pezzino, Le mafie, Firenze 1999.
    MARCELLA MARMO
    Università degli Studi di Napoli Federico II
    La camorra nella storia di Napoli
    1- Luoghi topici di un “presente lungo”
    Il mio intervento ad ampio raggio, per un bilancio necessariamente sintetico della criminalità organizzata presente a Napoli dall’inizio del secolo XIX, può partire dalla ricezione contemporanea del nostro ingombrante “passato che non passa”. A fronte della tradizione pubblicistica aperta dall’insuperabile libro dello scrittore italo svizzero Marc Monnier a ridosso dell’unificazione nazionale, che è proseguita lungo la riproduzione della camorra in successive congiunture politiche e sociali46, si può dire che l’attenzione propriamente scientifica alla storia del fenomeno tra passato e presente dati dai fasti della nuova Camorra organizzata cutoliana degli anni 1970-80. A fronte dell’escalation camorrista, che si fa spazio nel narcotraffico internazionale come negli appalti del dopo terremoto ma insieme rilancia il racket già regredito lungo il Novecento, la prospettiva sociologica adottava il modello di una vera e propria mutazione tra il passato sub-culturale dei fenomeni di tipo mafioso e il presente invece affaristico-imprenditoriale e più marcatamente criminale, già elaborato da Pino Arlacchi a partire dal caso calabrese47. Questa dicotomia subcultura/impresa ha trovato contestazioni presso gli storici. La ricerca sull’emergenza ottocentesca di mafia, camorra e ‘ndrangheta ha scelto infatti una prospettiva di “presente lungo”, capace di svolgere spunti comparativi su alcune qualità continuative di questi poteri territoriali: dalla iterata vocazione imprenditoriale intrinseca nell’estorsione/protezione, ai linguaggi dell’onore, che possono sembrare contigui con la topica subcultura mediterranea e invece segnalano un’élite criminale separata48. Tale prospettiva storica dà quindi evidenza al cruciale carattere adattivo dei fenomeni mafiosi verso i mutamenti del contesto, che ha permesso di attraversare successivi assetti economici, sistemi politici e stratificazioni sociali riproducendosi tra tradizione e modernità49.
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    50 Tra gli ultimi contributi alla letteratura post-unitaria che ha dato alla camorra ampio spazio tra i “mali di Napoli”, cfr. P. Sabbatino, Le città indistricabili. Nel ventre di Napoli da Villari ai De Filippo, Napoli 2007.
    51 Vedi: A. Capone, L’opposizione meridionale nell’età della Destra, Roma 1970; F. Barbagallo, Stato, Parlamento e lotte politico-sociali nel Mezzogiorno 1900-1914, Napoli 1976; M. Marmo, Il proletariato industriale a Napoli in età liberale (1880-1914), Napoli 1978. La prospettiva di studio sui fenomeni di clientelismo a fronte della contigua criminalità sembra farsi più precisa a partire da L.Musella, Individui, amici, clienti. Relazioni personali e circuiti politici in Italia meridionale tra Otto e Novecento, Bologna 1994; G.Machetti, La lobby di piazza Municipio: gli impiegati comunali nella Napoli di fine Ottocento, “Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali”, 38-39/2000; Id., La vita e i miracoli di Don Gennaro Aliberti. Pratiche politiche e relazioni sociali a Napoli tra Ottocento e Novecento, in La città e il tribunale. Diritto, pratica giudiziaria e società napoletana tra Ottocento e Novecento, a cura di G. Civile e G. Machetti, Napoli 2004.
    52 F. Barbagallo, Napoli fine Novecento. Politici camorristi imprenditori, Einaudi Torino 1997; M. De Marco, L’altra metà della storia. Spunti e riflessioni su Napoli da Lauro a Bassolino, Guida 2007, p. 75; M. Marmo, Camorra come Gomorra. La città maledetta di Roberto Saviano, “Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali”, 53/2006.
    Possiamo dunque mettere a fuoco il nostro tema della camorra nella storia di Napoli a partire da un aspetto del suo “presente lungo” che sembra porsi anche oggi in termini problematici, l’ambiguità cioè dei confini del fenomeno estorsivo – pur ben noto nelle sue articolazioni e visibile nella rete sociale – a fronte di altre pratiche di delinquenza e illegalità presenti nella grande città, già capitale ed ex-capitale, tutt’oggi in testa al malessere urbano ben oltre i confini italiani. Si può innanzitutto ricordare come sovente la parola camorra abbia subito uno slittamento rispetto alla “cosa”, dilatando l’effettivo fatto delinquenziale organizzato verso più ampi mali e problemi della città50 e per questa via producendo altrettanti metadiscorsi sulla sua politica e/o la sua antropologia. Tornerò anche più avanti sull’ampio ricorrere nell’Ottocento dell’idioma alta camorra, clientele camorriste, camorra amministrativa – espressioni che nella storia politica e sociale della città sono state spesso riprese tra virgolette, come ad avvertirne l’imprecisione, l’uso metaforico o estensivo a fronte del fenomeno delinquenziale propriamente detto camorra51. Se un effetto dilatazione sembra ritornare nell’antimafia di fine Novecento a proposito di camorristi/politici/imprenditori e negli stessi successi mediatici di Gomorra52, vorrei soffermarmi preliminarmente sull’azzeramento dei confini che sovente il senso comune e le campagne di opinione operano tra la criminalità organizzata e la illegalità diffusa, anche nelle sue forme più banali. Ci porta bene nelle inquietudini ed insieme nelle incertezze analitiche di inizio XXI secolo, ad esempio, la relazione della Commissione parlamentare antimafia del 20 febbraio 2008 – all’apice della crisi dei rifiuti di Napoli e nella difficile congiuntura politica cittadina e regionale – laddove, a commento delle principali informazioni di routine sui 78 clan campani (circa 3.000 adepti, una geografia come in passato concentrata in particolare nell’area costiera, molteplici campi di attività tra mercati leciti e illeciti, sorprendenti fenomeni di intreccio locale-globale ed insieme di gerarchizzazione delle delinquenze etniche…), si perviene a considerazioni d’insieme non prive di ambizioni storico-sociologiche a ben vedere insoddisfacenti. Se
    sullo sfondo si stagliano i mali endemici dell’area napoletana: forte disoccupazione, alta densità abitativa, quartieri invivibili, degrado ambientale, accentuato dalla gravissima emergenza per i rifiuti,
    da essi viene sommariamente vista derivare
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    53 Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare, Relazione del Presidente Francesco Forgione, trasmessa alle presidenze delle Camere il 20 febbraio 2008 (p. 67 versione pdf).
    54 Negli anni di tangentopoli, un politologo statunitense spiegava la diversa produttività delle regioni italiane a partire da un insieme di valori e identità nati nella civiltà comunale e presenti solo nel centro-Nord: R. D. Putman, Making Tradition Work. Civic Traditions in Modern Italy, Princeton 1993 (trad. it. La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano 1993). Questa sociologia storica è stata contestata per i cortocircuiti storiografici che implicava: S. Lupo, Usi e abusi del passato. Le radici dell’Italia di Putman, “Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali”, 18/1993.
    55 Forgione, Relazione cit., p. 68.
    56 Come segnale di una vera e propria sovrapposizione tra la criminalità organizzata e la più diffusa illegalità, la Commissione giunge a citare una non meglio disaggregata fonte di questura, secondo cui tra città e provincia di Napoli ci sarebbero nientemeno che 1.200.000 persone con precedenti di polizia: su 4 milioni di abitanti! La cifra, manifestamente impossibile ed evidentemente riportata alla carlona ma con sicuri effetti mediatici nel particolare “allarme Napoli” di questo ciclo politico, viene ulteriormente enfatizzata negli articoli del “Corriere del Mezzogiorno”, 28 e 29 febbraio 2008, cfr. le osservazioni di M. De Marco (m.d.) e M . Marmo, I dati sull’illegalità confondono le idee, ivi, 5 marzo 2008.
    57 Ivi, 20 settembre 2000, D. Del Porto, Vigna: la camorra come questione di DNA. Analoghe rappresentazioni onnicomprensive di Napoli città perduta dall’illegalità diffusa sono state proposte dai libri di Giorgio Bocca, che alludono anche esplicitamente ad un gioco identitario negativo a specchio tra Napoli e l’Italia lungo la crisi già aperta da tangentopoli: G. Bocca L’inferno. Profondo sud male oscuro, Mondadori, Milano 1992; Napoli siamo noi, Feltrinelli, Milano 2006.
    una “spiralizzazione” delle dinamiche delinquenziali, per cui i comportamenti violenti e aggressivi si intrecciano con le piccole illegalità, con la diffusa disattenzione alle minime forme di senso civico (…)53.
    La mancanza di civicness: la parola chiave del metadiscorso che mette insieme politica e società per sottolineare l’irrimediabile disunità italiana54. Da Franco Roberti, Procuratore della Repubblica aggiunto e coordinatore della DDA di Napoli, la relazione cita quindi la decisa opinione che vada rovesciato lo stereotipo interpretativo secondo cui alla «emergenza camorristica» viene ascritta «la funzione di spiegare (quasi giustificare) le logiche dell’illegalità fatta sistema». Ché anzi
    La camorra non rappresenta un fatto emergenziale, ma è parte integrante, anche con le sue faide più sanguinose e con i suoi delitti più efferati, della storia di Napoli (…)55.
    Quali risultino poi, accanto ad alcuni dati quantitativi sulla illegalità diffusa esposti confusamente e a fini meramente mediatici56, i versanti che integrano la camorra nella storia della città, la Commissione antimafia del 2008 non si impegna a precisare. Alcuni anni fa, vivaci polemiche si aprirono intorno ad una dichiarazione del procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna (fiorentino), che in occasione dell’uccisione da parte di un poliziotto di un giovane motociclista senza casco il quale non si era fermato al controllo di polizia per mera indisciplina, esternò un’opinione tranchante: cioè che nel DNA dei napoletani fosse presente l’allergia alle gerarchie e alla disciplina. Tale effetto DNA si manifestava «nella estrosità e nella fantasia anche nel delinquere», nella frammentarietà degli stessi clan, e ancora nell’acquiescenza delle popolazioni alla morte di innocenti – che un toscano non potrebbe certo tollerare57. L’onda leghista sembra forse reiterare stili di discorso non proprio benevoli, e più folclorici che profondi, quali già quelli di Renato Fucini sulla Napoli a occhio nudo segnata da una sostanziale inferiorità antropologica, popolata di furbi scugnizzi ed immersa in una indolente anarchia? E soprattutto, come esplicitare il prius causale dei comportamenti sbrigliati diffusi versus l’aggregazione camorrista?
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    58 Ivi, 19 settembre 2000, B. De Giovanni, E adesso non offendiamoci. Le radici storiche e i nessi complessi tuttora attualissimi tra povertà e illegalità venivano riprese in un’intervista a Giuseppe Galasso, che coglieva però anche il senso del gioco mediatico anti-meridionale, nel sottolineare la “singolare coincidenza” per cui “quello che il procuratore rileva nei napoletani gli stranieri spesso lo rilevano negli italiani, quasi come se l’Italia fosse la Napoli dell’Europa” (ivi, 21 settembre 2000). La lunga durata di queste proiezioni corse nella produzione dell’immaginario sul Sud sono state ricostruite a partire dalla letteratura di viaggio da N. Moe, The View from Vesuvius. Italian Culture and the Southern Question, 2002, University of California Press, Berkeley, Los Angeles, London (trad. it. Il paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del Mezzogiorno, Napoli 2004).
    59 De Giovanni, E adesso non offendiamoci cit.
    60 Se ne legge un buon collage nell’antologia a cura di A. Mozzillo, La dorata menzogna. Società popolare a Napoli tra Settecento e Ottocento, Napoli 1975. A fronte degli scritti del 1875, che a ridosso della caduta della Destra storica orientano il discorso sulle responsabilità dello Stato nella riproduzione di una camorra immersa nella barbarie plebea e che si prestano quindi a inaugurare una lettura populista della camorra, nelle meno note corrispondenze del 1861 a “La Perseveranza” lo storico napoletano ne sottolinea le specifiche strategie estorsive e ne auspica una repressione che passi per una legislazione speciale. Cfr. Sabbatino, Le città indistricabili cit., pp. 23-4, e M. Marmo, Quale ordine pubblico. Notizie e opinioni da Napoli tra il luglio ’60 e la legge Pica, in Quando crolla lo Stato. Studi sull’Italia preunitaria, a cura di P. Macry, Napoli 2003, p. 224 ss.
    61 P. Turiello, Governo e governati, (Bologna 1882), a cura di P. Bevilacqua, Torino 1980. La diversa prospettiva di Villari, Fortunato e Turiello è ripresa da G. Acocella, L’immagine della camorra negli scrittori meridionalisti, in Camorra e criminalità organizzata in Campania, a cura di F. Barbagallo, Napoli 1988. Cfr. pure da Sabbatino, Le città indistricabili cit., p. 87 ss.
    Tra le voci spesso meramente difensive di dissenso circa la connaturata indisciplina napoletana che Vigna scopriva nel settembre del 2000, fu Biagio De Giovanni ad esprimere un’opinione diversamente articolata, spostando il discorso dalla metafora DNA alla storia: la quale non può non riprendere la sproporzione antica
    tra popolazione e risorse (…) contrasto che ha svincolato una parte significativa del popolo napoletano da ogni responsabilità produttiva e civile e ha insieme “liberato” le sue classi dirigenti da un impegno pubblico e disinteressato (…). Lo stesso continuo aggravarsi del problema della malavita organizzata sta dentro questo squilibrio, che certo produce anche “cultura”, senso comune, disperazione, lontananza dai poteri pubblici e dallo Stato e persino “napoletanità”, una risposta interna alla crisi che la città ha vissuto a petto dei processi di modernizzazione: indicativa, spesso, di una sorta di fatalismo qualche volta entropicamente soddisfatto di sé 58.
    Superare la situazione resistente, opaca, quasi una «natura delle cose» superiore agli aneliti di rinnovamento, resta ad avviso di De Giovanni la via, che è affidata innanzitutto alle classi dirigenti: a queste tocca intervenire sullo squilibrio su detto, a fronte del «disamore per la legge. E se la legge fosse più giusta?»59.
    Tra l’eterno squilibrio popolazione/risorse e le responsabilità di una politica che non ne rimuove le cause, questo commento equilibrato sull’eziologia della camorra dentro altri mali di Napoli ci può richiamare il discorso delle Lettere meridionali di Pasquale Villari, infinite volte percorso nella storia della città contemporanea, e dal quale tuttavia l’attuale ciclo post-meridionalista tende probabilmente a prendere le distanze. Più che sottolineare le colpe dello Stato nella riproduzione della camorra – da quello liberale alla prima repubblica alla seconda incipiente –, e più che insistere sulla miseria come causa della violenza diffusa – discorso populista analogamente derivato da Villari nel seguito della “questione di Napoli”60 –, il nostro ciclo politico sembra sensibile alla diversa prospettiva di Pasquale Turiello, orientata sui comportamenti “sciolti” delle società meridionali, attivati dall’uscita troppo brusca dall’antico regime e dall’inclusione in uno Stato liberale mal integrato tra centro e periferia61. La teoria manipolatoria della politica,
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    62 P. Pombeni, Partiti e sistemi politici nella storia contemporanea, Bologna 1994, pp.155-169.
    63 Turiello, Governo e governati cit., p. 142..
    64 M. Marmo, Convivere con la camorra a Napoli nell’Ottocento. La paura come idioma di legittimazione, in Storia e paure. Immaginario collettivo, riti e rappresentazioni della paura in età moderna, a cura di L. Guidi, M. R. Pelizzari, L. Valenzi, Milano 1992.
    che lo studioso già garibaldino condivide con altri pensatori elitisti e che si colloca com’è noto nelle trasformazioni del sistema liberale in Europa con l’avanzare della forma-partito62, trova le sue particolari corrispondenze nell’esperienza della politica meridionale, e specificamente della ex-capitale napoletana fortemente sbilanciata verso il clientelismo e il personalismo. Già dunque venti anni prima che la governativa inchiesta Saredo bollasse nel 1900 come camorra amministrativa la corruzione e il malgoverno al Comune di Napoli, Turiello coglieva con acutezza, in diverse aree della vita sociale, analogie verticali nella diffusa manipolazione della legge, ben espresse dal parallelismo «in alto le clientele, in basso le camorre»63. Nel primo bilancio del sistema liberale alla prova ed alla soglia della sua evoluzione liberal-democratica, veniva a fuoco un’antropologia politica meridionale-napoletana circolare nella resistenza alla statualità di diritto, retrostante a comportamenti sociali distinguibili eppure diffusi. Quelli stessi, più o meno, che oggi finiscono talora nel calderone mediatico di un’illegalità dilagante.
    2- Tra la onorata società e la guapparia
    Tra le interpretazioni che responsabilizzano le istituzioni pubbliche e la politica “alta” nel perdurare delle carenze economico-sociali di Napoli, dove il fenomeno camorrista troverebbe la sua genesi e possibilità di riproduzione, e quelle invece portate a restituirlo innanzitutto alla società, focalizzando la propensione manipolatoria verticale tra élite e popolo, si può dire che il pendolo delle spiegazioni generali abbia oscillato in termini significativi nella storia della città otto-novecentesca. Per un verso, entrambe le alternative miseria/manipolazione della legge, che dai luminari della riflessione di età liberale tornano in alcuni discorsi contemporanei, fanno da sfondo alla convivenza della città con il fenomeno abnorme: possono giustificarne la riproduzione al di là delle repressioni più o meno intensive, ne facilitano la tolleranza con lo stesso inserirlo nei propri mali generali di grande città difficile e complessa64. D’altra parte, la storia della camorra nella storia di Napoli vuole andare al di là delle retoriche cui necessariamente ricorrono le spiegazioni generali, ed ha preferito non a caso, negli studi recenti sensibili all’interscambio con le scienze sociali, mettere a fuoco piuttosto la fenomenologia con cui la criminalità organizzata si presenta di contesto in contesto. Il richiamo, già svolto all’inizio di queste pagine, alle qualità e ai confini di questa criminalità essenzialmente estorsiva all’interno delle più varie forme di delinquenza e manipolazione della legge, si propone per l’appunto di decifrarne le specificità nella storia sociale della città.
    Ad uno sguardo ravvicinato si presta innanzitutto la scoperta della camorra nella congiuntura di unificazione, allorché la prima repressione massiccia di un potere territoriale percepito come incompatibile con lo Stato di diritto produsse non soltanto fonti di polizia molto ricche sulle biografie criminali e le pratiche estorsive nei mercati legali e illegali, ma anche la prima eccezionale attenzione sociologica e perfino letteraria.
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    65 Ne I Vermi si osservi ad es. come i riferimenti al mercato dove il picciotto in carriera si arricchisce restino sommari e non si attivi l’immaginario sull’economia camorrista: F. Mastriani, I Vermi. Studi storici sulle classi pericolose in Napoli, (Napoli 1863), Miliano 1972, vol. I, pp. 152-168. Per quanto riguarda i riti di aggregazione ripresi da Mastriani con tutti i dettagli, Sabbatino, Le città indistricabili cit., pp.37-49, ha rintracciato un opuscolo coevo che a Mastriani fece da fonte e dove si riporta un certo codice scritto: Natura e origine della misteriosa setta della camorra nelle sue diverse sezioni e paranze. Linguaggio convenzionale di essa, usi e leggi. Monnier, La camorra cit., pp. 22-23, si esprime viceversa con scetticismo circa i presunti codici scritti, ritenendo che la trasmissione della tradizione rituale fosse orale essendo i camorristi quasi tutti analfabeti.
    66 Marmo, Quale ordine pubblico cit., p. 227.
    67 A Spaventa va attribuito l’importante Rapporto sulla camorra inviato al Ministero degli Interni e pubblicato su “La Gazzetta del popolo” di Torino nel maggio 1861: M. Marmo, Camorra anno zero, “Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ’900”, 3/1999.
    68 Lupo, Storia della mafia cit. pp. 32-7.
    69 M. Marmo, Il prezzo del cadavere. Medici, impiegati, inservienti nell’Ospedale degli Incurabili a cavallo dell’Unità, in Professioni liberali. Campania XIX secolo, a cura di P. Frascani, “Quaderni” del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Istituto Universitario Orientale, 7-8/1991.
    70 Monnier, La camorra cit.
    Se nel grande affresco moralista dei mali di Napoli di Mastriani la camorra ricorre ai due livelli delle paranze eleganti e dei bassifondi – secondo i parallelismi che troveremo di lì a vent’anni in Turiello – , si può dire poi che i truci personaggi plebei di cui si raccontano riti di affiliazione e malefatte di ogni sorta offrano una rappresentazione tutto sommato debole della criminalità camorrista, giacché non si misura con la specializzazione propriamente estorsiva di questa delinquenza65. Un’analoga deficienza nel raccontare la camorra dall’interno della città si riscontra per questi anni ne L’Omnibus, l’importante giornale borbonico della critica musicale e teatrale romantica che bene rappresenta la Napoli colta e che nel 1860 si appassiona alla scoperta della politica nazionale. Tra l’entusiasmo naif per Garibaldi e l’autonomismo moderato, questi giornalisti si fanno portavoce del grande allarme vissuto dall’élite provinciale contro il brigantaggio e partecipano attivamente al dibattito sulla legge Pica che includerà nella repressione “eccezionale” briganti e camorristi. Ma non per questo arrivano a svolgere analisi di qualità sulla straordinaria criminalità cittadina, che aveva avuto particolare visibilità in occasione della nota cooptazione nella polizia di Liborio Romano nel luglio ’60 ed era poi entrata nel mirino della repressione a partire dalla luogotenenza Farini66.
    Dalle incertezze degli intellettuali letterati nell’identificare la camorra si differenziano in termini significativi altri discorsi. Il giurista-politico Silvio Spaventa, esponente di spicco dell’élite liberale già emigrata a Torino negli anni cinquanta e primo attore della dura repressione della camorra nel 1860-65, ne scrive come di un fenomeno complesso, giacché, accanto all’organizzazione esistente tra le carceri e i dodici quartieri di Napoli che pratica l’estorsione su una serie di mercati illegali e legali, su questi ultimi analoghe pratiche si svolgono anche autonomamente67. Spaventa pone dunque interrogativi inquietanti su un disordine sociale circolante ben oltre la delinquenza, non dissimili da quelli che Leopoldo Franchetti quindici anni dopo proporrà a proposito dei facinorosi delle classi medie violente in Sicilia68.
    Se la camorra diffusa emerge talvolta bene nelle nostre fonti ad esempio per varie pratiche illecite gestite intorno al grande Ospedale degli Incurabili69, la centralità del fatto organizzativo viene a fuoco nel fortunato scritto del 1862 di Marc Monnier70. Questo studioso ginevrino di cose letterarie era vissuto a Napoli per parecchi anni per gestire un albergo di famiglia, e fu quindi capace di portare, nell’osservazione della
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    71 Ivi, p.
    72 L’inclusione dei camorristi nella polizia nell’estate del ’60, dal governo dell’interregno a tutta la dittatura garibaldina, ha il suo precedente nella mobilitazione a favore del moto costituzionale del ’48 della camorra dei De Crescenzo di Montecalvario e nei legami coltivati anche lungo la successiva repressione. Singolare il racconto di Monnier, secondo il quale negli ultimi anni cinquanta furono commissionate da un nobile patriota ai camorristi, a pagamento, alcune finte risse che dovevano dare l’impressione, all’opinione pubblica nazionale in crescita, di un regime in difficoltà nel controllo del popolo (Ivi, pp. 117-121). Di tali misteriosi disordini di piazza ci sono significative tracce nelle fonti di polizia: A. Fiore, La camorra nelle fonti della polizia borbonica, tesi di laurea magistrale in Storia, Università di Napoli Federico II, a.a. 2007-08.
    73 Monnier, La camorra cit., p. 78.
    criminalità organizzata della capitale meridionale, insieme l’apertura al mondo liberale e alle nuove istituzioni orientate alla repressione, ed il più antico sguardo del viaggiatore, che si fa sociologo acuto del fenomeno preso ad oggetto anche grazie al suo angolo di visuale esterno. Sin dallo straordinario esordio del libro sul percorso dello straniero che sbarca al porto di Napoli e vede con sorpresa il susseguirsi di implacabili esattori sui servizi di trasporto, dalla barca alla locanda alla carrozza di piazza, viene in tutta evidenza la capillare presenza camorrista sul territorio. Monnier ci dice molto sulla camorra da poco emersa nella storia di Napoli, poiché intercetta con acume l’ambiguità dei confini del fenomeno criminale organizzato sia all’interno della vita sociale, sia in relazione alla congiuntura politica d’eccezione in cui una criminalità estorsiva con ogni probabilità preesistente si era aggregata e resa visibile, tra la restaurazione borbonica e l’unificazione nazionale.
    Il libro non perde di vista i due cardini del fenomeno, cioè l’aggregazione delinquenziale stretta a fini estorsivi, che impedisce di diluire il fenomeno stesso in altre forme di prepotenza secondo l’idioma non condiviso di “alta camorra”71, e la sua sostanziale autonomia politica, pur nelle rilevanti pratiche politiche descritte: la cogestione dell’ordine pubblico nata a ridosso della riforma murattiana della polizia, e per converso i network praticati con i liberali tra l’emergenza settaria, il ‘48 e il ‘6072. Il racconto porta così di volta in volta alle contiguità relazionali e culturali del gruppo chiuso verso l’esterno, che si tratti degli scambi di mercato in cui l’estorsione si presenta come servizio più o meno truccato, ovvero del ruolo di pacieri nel litigioso milieu, quando, sia pure di sovente a pagamento,
    si ergevano in tribunale e componevano una magistratura meglio consultata, meglio ascoltata di quella eletta da Ferdinando73.
    I fatti sociali concreti lasciano venire a fuoco con profili realistici il carattere di anti-Stato svolto da un élite delinquenziale radicata nella città popolare, ordine/disordine tipicamente sociale che decolla però a potere territoriale, ed acquista quindi un’intrinseca rilevanza politica, grazie all’imitazione di modelli alti: il fisco, le funzioni d’ordine, il linguaggio dell’onore. Se il modello fiscale attiene ai successi economici e lato sensu politici del potere territoriale, il linguaggio dell’onore illustra a sua volta un ritratto di gruppo di questa élite delinquenziale, alcuni suoi orizzonti culturali e identitari. Il codice della cosiddetta onorata società – secondo la ritualizzazione rigorosamente maschile praticata per tutto l’Ottocento – per un verso risulta espressivo dei valori sacrali virili che devono possedere gli individui, d’altra parte traccia i confini del gruppo e ne formalizza le regole funzionali alla coesione e al controllo della conflittualità
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    74 M. Marmo, L’onore dei violenti, l’onore delle vittime cit.
    75 La lettura della rete camorrista/mafiosa in chiave di aree di reciprocità, secondo la lezione teorica delle antropologie dello scambio di Marshall Sahlins può valorizzare l’espressività dell’interazione culturale nei fenomeni di tipo mafioso, connessa alla particolare carica di violenza, più di quanto non si prestino probabilmente a fare altri schemi sociologici sui legami forti/“laschi”, pur adatti a descrivere l’ampio articolarsi della rete. Cfr. R. Sciarrone, Mafia e potere: processi di legittimazione e costruzione del consenso, “Stato e mercato”, 78/2006; M. Sahlins, La sociologia dello scambio primitivo, in L’antropologia economica, a cura di E. Grendi, Einaudi, Torino 1972, pp. 107-111.
    76 A confronto con la cosca mafiosa coeva, la specificità della camorra storica risulta nel carattere più diffuso del racket cumulativo tra aree di mercato legale ed illegale, cui corrispondono la precoce strutturazione nella città borbonica e la visibilità barocca ancora fortissima in età liberale, cfr. Marmo, Tra le carceri e i mercati cit.
    77 Il ricco fascicolo di polizia è documentato in M. Marmo, O. Casarino, “Le invincibili loro relazioni”: identificazione e controllo della camorra napoletana nelle fonti di età post-unitaria, “Studi Storici”, 2/1988.
    78 I linguaggi corsi nell’eccezionale racconto del 1862, a fronte del codice della onorata società, sono oggetto di analisi in Marmo, L’onore dei violenti cit.
    interna74. Lungi dal risultare un residuo folclorico, nell’esistenza stessa di un codice leggiamo una versione significativa dell’antropologia della reciprocità generalizzata propria delle aggregazioni sociali solidaristiche, che si ribalta verso l’esterno nella reciprocità negativa, l’ostilità sostanziale del rapporto di intimidazione e parassitismo sotteso alla strategia estorsiva. Il gruppo stesso vive poi di relazioni aperte, immergendosi in un mondo sociale e di mercato dove correntemente i confini legale/illegale si travalicano, e si mettono dunque in atto le tante forme di scambio che i network rendano praticabili, verso il basso e verso l’alto del mondo circostante: la reciprocità equilibrata che generalmente ha il maggior spazio nelle relazioni sociali75.
    Di questo “modello napoletano”, individuabile per la criminalità fortemente corporate e specializzata in un’estorsione a tappeto visibile nella grande città76, la cui forza sta insieme nel gruppo chiuso e nei network aperti, alcune fonti post-unitarie lasciano tracce illuminanti. Val la pena di richiamare ad esempio l’articolata carriera del capo-facchino Pasquale Cafiero, che si arricchisce alla Gran Dogana sul lavoro degli scaricanti non meno che sul contrabbando, a partire probabilmente dagli anni cinquanta. Nei primi ottanta ottiene da diversi commercianti e onorevoli le raccomandazioni efficaci ad evitare il licenziamento minacciato dai dirigenti “torinesi” della Gran Dogana. Vent’anni prima ha fatto da capopopolo nei disordini provocati dal divieto prefettizio di una processione per il Corpus Domini in piazza del Carmine. Ma non manca a sua volta di farsi pagare dai delinquenti che hanno bisogno di appoggio in Questura e Pretura per arginare la repressione di polizia77. La violenza e il parassitismo dell’estorsione sui piccoli commercianti è a sua volta raccontata in maniera ben espressiva da una querela del 1862 – evento raro, reso possibile dalla intensa repressione di quegli anni, che convinse la vittima della tangente del 30% di un commercio di lana a raccontare alla polizia per filo e per segno l’attiva intimidazione subita, a domicilio e per strada, le parole vanamente intercorse per arginare le esose pretese, la rabbia con cui finì per obbedire, ma non senza esprimerla agli stessi estorsori piombati dal Cavone nella sua casa al Largo delle Pigne78. Queste tracce concrete della camorra nella vita sociale dissolvono il topos della guapparia buona di una volta, che la convivenza con il fenomeno produce e riproduce nella storia della città, e che ancora filtra nelle interpretazioni dicotomiche di un passato sub-culturale del fenomeno camorrista, già citate all’inizio di queste pagine.
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    79 Utili riferimenti comparativi si riscontano con altri contesti di fine Ottocento: Lupo, Storia della mafia cit., pp. 132-9; Pezzino, Le mafie cit., p. 87 ss.; P. Monzini, Gruppi criminali a Napoli e a Marsiglia. La delinquenza organizzata nella storia di due città (1880-1990), Roma 1999.
    80 Marmo, Il proletariato industriale cit.
    81 Lupo, Storia della mafia cit., p. 67 ss.
    82 M. Marmo, “Processi indiziari non se ne dovrebbero mai fare”. Le manipolazioni del processo Cuocolo (1906-1930), in La costruzione della verità giudiziaria, a cura di M. Marmo e L. Musella, Napoli, ClioPress 2003 (http://www.storia.unina.it /cliopress/marmo.html).
    83 G. Machetti. La lobby di piazza Municipio cit.
    84 E. Ciccotti, Come divenni e come cessai di essere deputato di Vicaria, Morano, Napoli 1909.
    È interessante che il mito della guapparia si fissi a cavallo del primo Novecento, allorché il fenomeno camorrista ha una considerevole trasformazione all’interno del più ampio mutamento sociale. Se per un verso il controllo di polizia indebolisce la strutturazione centralizzata, la società liberale favorisce lo sviluppo d’interazioni, a partire dal cruciale mercato elettorale, che svolse probabilmente un ruolo chiave nel modificare progressivamente la configurazione delle reti camorriste, producendo una certa contrazione dell’organizzazione federata, a vantaggio di network individuali più liberi79. All’inizio del nuovo secolo la città, passata attraverso il colera del 1884 e la cospicua ristrutturazione urbanistica del Risanamento, registra l’âge d’or della prima presenza socialista, che con l’iniziativa della campagna sulla “questione morale contro la camorra” produrrà l’inchiesta Saredo e verrà quindi premiata dagli sviluppi del movimento operaio e sindacale con la legge per il “risorgimento industriale di Napoli”80.
    Tra altri aspetti di modernità del primo Novecento, la città partecipa del nuovo ciclo di antimafia aperto dal processo Notarbartolo81, che dalla Sicilia si proietta nell’opinione pubblica nazionale e produce la prima “nazionalizzazione” di mafia e camorra. È in questa cornice che va inquadrato il susseguirsi a Napoli della tangentopoli dell’Inchiesta Saredo sulla corruzione amministrativa, bollata come “alta camorra” lungo la crisi politica nazionale di fine secolo, e del maxiprocesso Cuocolo messo in piedi contro la onorata società in occasione di un duplice omicidio di camorra del 1906, con il primo “pentito” che porta la delazione in sede penale82. Benché nell’alta camorra dell’inchiesta del 1900 la parola indichi essenzialmente il clientelismo frammisto alla corruzione diffusa e al malgoverno amministrativo83, la contiguità della camorra delinquenziale con la politica ebbe una sua evidenza nelle elezioni del 1904, allorché a Vicaria contro il deputato socialista uscente furono mobilitati noti camorristi, i quali si troveranno invischiati di lì a due anni nel processo Cuocolo84.
    Per fornire solo qualche informazione essenziale su questo complesso procedimento indiziario, che vide una gestione antigarantista della procedura ai limiti della legalità e una straordinaria partecipazione dell’opinione pubblica divisa tra innocentisti e colpevolisti, diciamo che al centro del processo da prima pagina è la sociologia composita di una camorra che esce dalla città bassa e invade spazi medio-alti. Un nuovo ciclo di pubblicistica, e le stesse fonti giudiziarie, raccontano una onorata società ancora vitale, insieme chiusa e inclusiva, delinquente e capitalista: che tiene insieme il verminaio del bordello, l’insidiosa area del furto e della ricettazione, l’escalation degli affari – dai mercati di animali alle aste all’usura d’alto bordo, ed è allora una piovra camaleontica che con i suoi tentacoli attanaglia l’intera città. Le vecchie e nuove metafore della pericolosità sociale, che abbondano in un allarme mediatico inedito nelle pur iterate repressioni
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    85 Russo-Serao, La camorra cit., pp. 32-3, 82, passim.
    86 Il che non risolve peraltro la «maledizione sociale» della città di plebe, l’inciviltà cioè di «una razza» che non «il trastullo dell’industrializzazione» potrà sconfiggere, bensì un intenso disciplinamento sociale, attraverso la «amministrazione rigorosa e spietata della giustizia», come lo stesso processo Cuocolo suggeriva, e attraverso un processo altrettanto duro di incivilimento, che riguardi la casa, l’igiene e la scuola (Labriola, Il mistero di Napoli e la leggenda della camorra cit., pp. 86-88): i rimedi a ben vedere già proposti da Villari tornano in questa prospettiva primo-novecentesca di una trasformazione innanzitutto culturale della città di plebe.
    87 Ricci, Le origini della camorra cit.; Sales, La camorra le camorre cit.
    88 Ivi, pp. 103-4; G. Gribaudi, Donne, uomini, famiglie. Napoli nel Novecento, Napoli 1999, pp. 67-87.
    contro la camorra, trovano in Ernesto Serao e Arturo Labriola una sociologia d’eccezione, da fronti politici opposti ma convergente nell’acuta percezione di un fenomeno mutante. Il giornalista de “Il Mattino” racconta una camorra fatta insieme di guappi di sciammeria modernissimi e di bestie umane, la cui presenza, da qualche migliaia di affiliati, si dilata a tutta la città plebea, definita come le classi pericolose vecchie e nuove che la stessa incipiente industrializzazione va addensando, dal centro storico alle periferie85. L’onorevole social-massone, a sua volta, fa un più complesso discorso su una vera e propria ibridazione tra camorra e borghesia, esito della trasformazione sociale epocale che ha esaurito le basi sociali e culturali della camorra plebea antagonista dei secoli XVII-XIX, e d’altra parte ha lasciato che il parassitismo delle élite contaminasse anche le classi inferiori: giacché la città di aristocratici e plebe non ha conosciuto la lotta di classe della borghesia lungo l’età moderna e non conosce nell’età contemporanea quella tra borghesia e proletariato. La sociologia storica tranchante dell’intellettuale già anarco-sindacalista combina quindi il pessimismo circa l’intervento pubblico industrialista e l’idealizzazione della camorra autenticamente plebea di una volta: una sorta di avanguardia del popolo di cui è rimasta non più che una leggenda, poiché, Labriola è lapidario, «la vera camorra è morta»86.
    Si comprende come questo discorso, centrato su categorie classiste in cui a ben vedere c’è una priorità del fatto culturale, riservi al passato il populismo e per il presente alluda alle commistioni spurie della modernità. L’idealizzazione della camorra delle generazioni precedenti peraltro circola in tutta la pubblicistica che abbiamo visto accompagnare il processo da prima pagina, ed ha lasciato una chiara impronta nelle letture di metà Novecento e oltre. Ad esempio, negli scritti attraversati dall’ideologia marxista di Paolo Ricci e poi di Isaia Sales, il fenomeno camorrista ottocentesco è stato visto come un partito del popolino, investito da un ruolo di rappresentanza, contenimento e protezione della città plebea nel suo insieme, un anti-Stato non per caso legittimato dalla pur parassitaria estorsione87. A favorire questa lettura dicotomica della camorra storica rispetto a quella contemporanea è del resto l’evoluzione che segue la repressione del processo Cuocolo, allorché la tradizione organizzativa di una onorata società già in crisi di coesione si dissolse e il fenomeno si fece carsico, certo anche in relazione ai mutamenti epocali portati dalla Grande Guerra e dall’avvento del fascismo. L’indebolirsi del potere territoriale lascia la camorra come guapparia, radicata nei quartieri e nei paesi con un mix di individualismo e tradizione comunitaria, di cui resta ancora da fare la (non facile) storia sociale effettiva, al di là delle rappresentazioni di Viviani e di De Filippo88. Si può tuttora verificare la persistenza di una memoria mitica dei guappi buoni di una volta, secondo una procedura ricorrente via via che i cicli sociali e politici allontanano il fenomeno del passato, a fronte di un presente in cui balzano in primo piano il carattere
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    89 Ricci, Le origini della camorra cit., p. 105; Guarino, La camorra cit., pp. 509-11.
    90 Cfr. la presentazione di A. Lamberti a Ricci, Le origini della camorra cit.
    91 Villari, Le lettere meridionali cit., p. 41, passim.
    92 La circolarità di aspetti culturali tra élite e popolo è sottolineata da G. Galasso. L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, Milano 1982.
    93 Cito da P. Macry, Borghesie, città e Stato. Appunti e impressioni su Napoli, 1860-1880, in “Quaderni storici”, 56/1884, p. 343.
    delinquenziale di massa e insieme imprenditoriale della camorra che torna. Così, se ai tempi del delitto Cuocolo la piovra sotto processo risultava una volgare imitazione dell’antagonismo plebeo di una volta, quando nel secondo dopoguerra al dominio del contrabbando seguì la guerra di camorra dei mercati generali di Corso Novara con l’omicidio di Pascalone ‘e Nola, si poté idealizzare la guapparia del primo Novecento a fronte della nuova camorra che porta la pistola sotto l’ascella89. Con il grande rilancio del potere territoriale operato da Cutolo, lungo successive stratificazioni della memoria sociale giunge fin alla sociologia contemporanea l’idea che le ragioni della camorra di una volta fossero quelle già viste da Villari, insieme la barbarie prodotta dalla miseria e le funzioni d’ordine svolte dai guappi su delega del potere90.
    3- La città redistributiva
    Nel manifesto della prima antimafia meridionalista di Villari che continuiamo a citare, com’è proprio delle grandi interpretazioni, il grumo delle cause, che ancora negli anni 1870-80 si potevano attribuire al monitoraggio borbonico dell’aggregazione camorrista, concentra ragioni insieme sociologiche, politiche e culturali. La curvatura culturalista sottesa alle responsabilità del potere alto, che Villari vuole denunciare perché non si ripeta la delega alla violenza che sottomette i deboli ed è la forma naturale e necessaria di questa società91, aderisce ad una separazione tra la città popolare e la città di élites e ceti medi, sicuramente presente nella sociologia di Napoli e già leggibile anche nelle “due nazioni” di Vincenzo Cuoco. La metafora primo-ottocentesca interpretava la spaccatura del 1799 lungo fratture sociali profonde, le quali però vennero a incrociare la grande congiuntura politica – che a ben vedere portò il sottoproletariato sanfedista di Napoli dentro le dinamiche di schieramento internazionale della prima età contemporanea, producendo dunque la prima vicenda di integrazione delle masse in una storia politica che dal 1789 ha visto ormai l’irruzione delle masse. Successive congiunture torneranno a chiudere la plebe in una radicale separatezza socio-culturale, che tuttavia i processi di integrazione dell’età contemporanea alla lunga smentiscono. La storia della camorra nei suoi flussi di relazione aperti anche verso l’alto su cui mi sono sinteticamente soffermata, la stessa percezione di un parallelismo tra camorristi eleganti e plebei in Mastriani, tra alta e bassa camorra in Turiello, alludono ad una circolazione di modelli, che trova conferma in altri aspetti della storia sociale e culturale urbana, dagli insediamenti abitativi alla vera passione per l’azzardo92. Quando Rocco De Zerbi parla di una città delle élite come ostrica, frutto squisito che nulla a che vedere con lo scoglio al quale è attaccata93, viene a rimuovere una comunicazione sociale alla quale in realtà lo stesso onorevole-giornalista non è estraneo: per paradosso, troviamo appunto una sua lettera di raccomandazione, secondo la classica catena degli amici degli amici, tra le altre che intorno al 1880 salvano dal licenziamento il facinoroso capo-facchino della Dogana, di cui si è sinteticamente
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    94 Vedi supra p. .
    95 P. Macry, Circuiti redistributivi di una città ottocentesca, “Quaderni storici”, 91/ 1996. La categoria risulta centrale anche nell’analisi del parossistico fenomeno di disordine finanziario noto come le banche-usura: M. Marmo, La strana forma del credito. Cultura urbana e autorità liberale nella vicenda delle banche-usura, in Tra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, Bologna 1994, dove si riprende tra l’altro la prima lettura di Matilde Serao nella novella Trenta per cento.
    96 Reale Commissione d’Inchiesta per Napoli, Relazione sull’amministrazione comunale, Roma 1901, vol. 1, pp. 50-1, ripresa in Macry, Circuiti redistributivi cit.
    raccontato l’ampio ventaglio di network94.
    Nell’articolata stratificazione della grande città che la storia contemporanea tende a potenziare, le stesse ampie chance di manipolazione di una società a potere diffuso lasciano spazio alla specializzazione nell’accesso alle risorse. È questo un aspetto chiave per mettere a fuoco – ben oltre la guapparia – che cosa veramente la camorra condivida con la cultura urbana. L’aggregazione di un’élite criminale ben distinta dagli altri plebei, dotata di strategie estorsive che fanno la differenza rispetto alla delinquenza e marginalità popolare in cui pure questa delinquenza è immersa, incontra ed applica a suo modo una regola sociale corrente: inserirsi nel denso mercato urbano, accaparrare risorse o inventarne, a partire da possibili situazioni di forza. Nel fare il punto sullo sviluppo degli studi di storia economica e sociale, alcuni anni fa Paolo Macry ha svolto un’acuta lettura della città ottocentesca come attraversata da una serie di circuiti redistributivi, che vanno incontro alla domanda di beni e servizi e talvolta la creano, sono dotati di caratteristiche comuni e intrecci reciproci: dalle tendenze monopolistiche nel mercato urbano-rurale a un sistema creditizio-finanziario tendenzialmente usuraio, dall’assistenzialismo e dalla corruzione diffusi allo stesso enorme spazio dei giochi d’azzardo, si incontrano propensioni diverse e apparentemente oppositive, quali rendita e rischio, legalità e illegalità, interesse privato e bene pubblico95. Tra questi circuiti insieme inclusivi e redistributivi di tecniche e di risorse, viene ad inserirsi anche la criminalità organizzata. In un mercato pletorico quanto embedded nel tessuto sociale e spesso sottoposto a veri e propri monopoli, la camorra ha il suo spazio rilevante nella stessa articolazione dell’organizzazione ottocentesca per società di quartiere e paranze di mercato, che aderisce alla dislocazione insieme delle residenze e della socialità, delle istituzioni del controllo e degli scambi della grande città su cui calare la propria strategia estorsiva/fiscale. All’interno della società urbana affollata che Nitti definì “di consumo e di mercato”, nell’area del pubblico impiego si incontra a sua volta la cosiddetta interposta persona, secondo l’espressione dell’inchiesta Saredo, il faccendiere che cerca spazio negli uffici pubblici imponendo una mediazione nelle pratiche burocratiche minute, facendo dunque mercato di beni in teoria gratuiti quali i servizi amministrativi96.
    Alla luce del modello redistribuzione che circola nella cultura urbana assimilando tecniche di controllo delle risorse certo socialmente articolate, si può dire che la valenza dell’idioma camorra amministrativa sta bene a cavallo tra le pratiche, pur ben distinte per soggetti sociali e funzioni, della interposta persona e del camorrista. L’analogia s’individua talvolta con chiarezza nelle fonti che permettono uno zoom sull’estorsione camuffata dalla prestazione di un servizio, ad esempio nell’imposizione di un pizzico in cambio di lavori di scarico alla Pietra del pesce del quartiere Mercato. È un «servizio non richiesto da alcuno ed inutile», leggiamo in un rapporto di polizia giudiziaria del 1887, giacché i pescivendoli hanno già i loro garzoni e le chianelle di pesce non devono percorrere che
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    97 Vedi la documentazione analizzata in M. Marmo, Ordine e disordine. La camorra napoletana nell’Ottocento, “Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali”, 7-8/ 1990.
    98 Sales, La camorra le camorre cit., p. 154 ss.
    99 T. C. Dalbono, Il camorrista e la camorra, in F. de Bourcard (a cura di), Usi e costumi di Napoli e contorni, (Napoli 1853-66) Milano 1955, pp. 894-95.
    100 A logiche non produttive, ma orientate a distribuire risorse a destra e a manca – potere locale e appalti industriali sbagliati, posti di lavoro ed accordi con i clan che gestivano i favolosi affari dei rifiuti tossici… – risulta chiaramente aver risposto il colossale dis-funzionamento del carrozzone del Commissariato per l’emergenza dei rifiuti campano: G. Gribaudi, Il ciclo vizioso dei rifiuti campani, “Il Mulino”, 1/2008.
    101 Il documento è ripreso in Marmo-Casarino, “Le invincibili loro relazioni” cit.
    pochi metri…97. Il funzionario non manca di riportare l’espressione con cui, di là dal servizio fittizio, i giovani estorsori che il poverissimo quartiere del Lavinaio vomita, una banda dopo l’altra, verso il mercato, cercano di imporre la tangente: «sotto il pretesto della loro campata». Il servizio truccato si può dunque legittimare con la richiesta populista di sopravvivenza, ed è linguaggio che torna ad esempio nella presunta ideologia sociale cutoliana della camorra massa che negli anni 1970-80 sorregge il rilancio del racket98.
    L’impressione di trovarci di fronte al medesimo fenomeno sociale, la ricerca cioè di linguaggi socialmente comprensibili per farsi pagare la violenza piombata nella girandola del mercato diffuso, rimbalza ancora dalle pagine dedicate al camorrista da Tito Carlo Dalbono, per l’importante volume di folclore napoletano curato tra il 1847 e il 1866 da Francesco de Bourcard, Usi e costumi di Napoli e contorni. Nella più lunga trattazione delle particolarità di questa delinquenza, l’ingresso nel mercato del camorrista viene letto – con l’arguzia del senso comune e insieme la chiarezza sociologica propria della scoperta della camorra nella prima età liberale – a partire dalla imitazione dell’esazione fiscale sovente arbitraria affidata al chiazziere municipale, in contiguità però anche con le ragioni universali dei poveri/mendicanti:
    Questa forma di esigere il soldo, preso così tra minaccia e sorpresa, suscitò le libidini del camorrista. Il governo esigeva senza norma e senza forma legale dal contadino in piazza, egli fece un passo indietro e aspettò [il chiazziere] più innanzi. “Vai a vendere con le some cariche, sei certo di tornare con le some vuote e le tasche piene, dai un soldo al governo, pagane uno a me che ne ho bisogno più di lui (…) Da mihi portionem, sono un figliuolo della strada, debbo vivere dei fatti compiuti nella strada99.
    Per l’appunto i fitti scambî di mercato. Il passaggio folclorico ci porta bene dentro i circuiti distinguibili ma paralleli che le risorse e il denaro percorrono nel mercato diffuso di Napoli, secondo la citata lettura di Macry, all’incrocio tra la stratificazione e le modalità di accesso alle risorse, la società e la politica. A questi incroci si comprende che la crisi contemporanea sia portata a dare particolare rilevanza, tornando a ragionare sugli aspetti economici dell’ “eccezionalismo” napoletano. Nella propensione a distribuire risorse date prima che ad accrescerne la produzione – dalla rendita affluente alla città capitale, alla dipendenza dalla spesa pubblica e all’assistenzialismo che attraversano i secoli, e ancora si presentano con intrecci complessi nella cruciale “emergenza rifiuti”100–, possiamo sommariamente intravedere una cultura trasversale tra gruppi sociali, classi dirigenti ed epoche storiche, che rende comprensibile il radicarsi di poteri territoriali estorsivi. Inique tasse a prezzo della pace comprata, definiva la camorra un questore del 1861, sottolineandone la presenza tutt’altro che pacifica ovvero eroica nella vita sociale101. La città porosa e omeostatica, che si dota come istintivamente di speciali ammortizzatori
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    102 Ne scrive P. Macry, “Corriere del Mezzogiorno”, 13 agosto 2206, cit. in De Marco, L’altra metà della storia cit., p.19.
    sociali per fronteggiare i suoi squilibri e insabbiarne i conflitti102, ha pagato e paga certo un alto prezzo alle aggregazioni capaci di emergere grazie alla violenza organizzata, nelle particolari densità demografiche e specificamente delinquenziali, per prelevare la loro parte di reddito nella grande città “di consumo e di mercato”.
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  9. marymilly
     
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    no no il prof s è confuso... sn solo le prime 13 pag...
     
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  10. didila
     
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    Date esame:

    13/06
    7 - 23/07
    24/09
     
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  11. gulyguly
     
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    ciao ragazzi ho appena scaricato la dispensa sul sito del prof.
    se non ho capito male all'esame si porta il libro che ha scritto lui "Nel v€ntr€ di napoli",Gomorra e tutta la dispensa.
    confermate?
     
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  12. SpiritoDionisiaco
     
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    Ciao ragazzi! Allora, ricapitolando, qual'è il programma completo di Italianistica 6 con $a33at1n0? Ci sono esclusioni particolari? ad esempio,nel suo testo "Le città indistricabili" ho letto che il 3° capitolo non si deve fare,è vero?inoltre la dispensa su gomorra è da studiare tutta o solo le prime tredici pagine? Chi ha notizie certe le condivida. Un grazie in anticipo! ^_^
     
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  13. clood--88
     
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    Ciao ragazzi! Io la dispensa del prof nn la trovo...sn andata sul sito ma dove sta di preciso??
     
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  14. TERSICORINA
     
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    L'HO POSTATA IO!!! CERCA UN POCHINO!!!!!!!!!
     
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  15. clood--88
     
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    L'ho trovata ...grazie mille :D
     
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367 replies since 14/1/2008, 14:33   9933 views
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