Marco Palasciano

alta letteratura

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  1. Hamlet da Hamelin
     
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    Visualizzare il seguente SPOILER, nel caso che www.pernacchiodeldiavolo.com venga di nuovo distrutto dagli hacker; intanto è risorto dalle proprie ceneri; amen.

    SPOILER (click to view)
    :blink: Ho appena scoperto che www.pernacchiodeldiavolo.com è stato distrutto da un hacker!; -_- ma per la vostra gioia, fan adorati, ecco recuperato il testo del bell'articolo di Virginia su di me che era contenuto nel sito.

    «L’immaginazione è più importante della conoscenza».

    Ho letto troppo poco di Marco Palasciano per poter dire che questa affermazione di Albert Einstein descrive la sua produzione. Ma siamo di sicuro di fronte ad un autore che riesce a destrutturare la realtà, a disperderne le coordinate, attraverso un uso della parola quasi illusionistico e ad uno stile che trova i suoi punti di riferimento estremi in Joyce, verso l’alto, e nei fumetti Disney, verso il basso, con soluzioni che Giulio Ferroni ha definito «a tratti geniali».

    Nato a Capua, diplomato in regia cinematografica, direttore dell’Accademia Palasciania, compositore, poeta, oltre che, naturalmente, scrittore, Marco Palasciano è giunto tre volte in finale al premio Calvino con tre scritti diversi, due dei quali distrutti e il terzo, Prove tecniche di romanzo storico, arrivato alla pubblicazione per conto della casa editrice Lavieri, e presentato la scorsa settimana nell’ambito della rassegna Galassia Gutemberg. Non avendo ancora avuto la possibilità di leggere questo libercolo, ambientato nella Napoli di Murat, di cui ho letto solo poche pagine, le stesse “recitate” dallo stesso autore durante la presentazione (ascoltandolo ho avuto l’impressione che ogni suo scritto più che letto vada, appunto, recitato, o perlomeno letto a voce alta; solo così se ne coglie in pieno l’espressività, anzi, direi quasi l’espressionismo), mi soffermerò sul Concerto del giubileo, racconto scritto tra il 1988 e il 1990.

    Un suono striscia lungo tutto questo racconto. Un suono che, sibilante, urla. Urla l’assurdo, il vuoto, la follia. Urla che l’uomo si è spinto oltre. Troppo.

    Atlantide. Psichedelica “Città Eterna”, dominatrice del mondo, colta nella sua decadenza barocca. Città che racchiude in sé i migliori “esemplari” di uomini: geniali musicisti e scienziati eccellenti. Anche se le fondamenta stanno cedendo sotto il peso di tanta genialità ed eccellenza, ma chi ci vive è troppo occupato da sé stesso per avvertire gli scricchiolii – il suono –. Ciascuno vive nel “compartimento stagno” della sua vita e si disumanizza, si deforma fino a diventare grottesca rappresentazione di un vizio, sagoma assottigliata di convenzioni sociali (il the della signora Zahler con le amiche, con tutti gli “-ini” del caso, è un’efficace messa in scena dell’appiattimento della persona sull’oggetto che la caratterizza).

    Anche la narrazione procede per compartimenti stagni, soprattutto all’inizio, quando personaggi e situazioni ci vengono presentati come cellule indipendenti, tessere di un puzzle che alla fine non si ricompone del tutto, ma lascia piccoli, destabilizzanti vuoti. I periodi brevi, caratterizzati da una punteggiatura frequente e precisa ci portano nella stessa direzione: spesso più che dare un significato al mondo che descrivono, glielo tolgono. Sono come il mosaico in cui Baldeschein, da piccolo, cercava di scorgere delle forme che non c’erano, perché si trattava solo di un disegno astratto, come la vita. È la vertigine che riesce a dare la scrittura capace di CREARE dimensioni, di inventare realtà, interferenze, come nella piccola biblioteca dove non si sa se i libri provengano da un antico passato o da un remoto futuro. Ma vertigine è pure quella che si avverte di fronte al canto, sublime e macabro al contempo, dei giovani castrati – nell’inguine, nelle braccia, nelle gambe, ma soprattutto nell’anima – che, qualsiasi cosa cantino, cantano la loro esistenza dimidiata, dietro un senso che non c’è.

    Se ci soffermiamo sul lessico poi, vediamo come l’uso di termini ricercati o giochi di parole, rivelino da un lato, la macchinosità e i paradossi di una società segnata da contrasti, dall’ altro come gli stessi ci COSTRINGANO a pensare, poiché con la loro singolarità, che talora si tramuta in vero e proprio sperimentalismo lessicale, risvegliano la nostra attenzione, deautomatizzando la nostra lettura.

    Ma si può dare un significato, un’interpretazione alle linee di questo mosaico astratto? Forse no, o almeno non completamente. Passando dall’idea di una “favola” paradigmatica, saltando da un futuro inquietantemente possibile agli echi di un ventennio passato folle e insensato, navighiamo in un tempo multiplo e disorientante, in cui l’unica certezza è il costante stato dell’uomo, perpetuamente in bilico tra volontà di progredire e limiti da porsi.

    E anche se l’urlo esplode, se i pesci-mostri, metafore-spettri della tracotanza dell’uomo e prodotto della sua ambizione sconsiderata distruggono tutto, il disegno continua, mostra una via, se non d’uscita, almeno di guarigione. Anzi, forse due. La prima è l’arte, che quando è sublimazione, riesce a sovrastare il suono del malessere e dare coscienza e sogni alla folla. La seconda è l’amore, che quando l’arte fallisce, compare a dare l’ultima possibilità.


    Edited by Hamlet da Hamelin - 15/9/2006, 01:39
     
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